IL FENOMENO DEL
MONACHESIMO ITALO-GRECO
LA CONQUISTA DELLA SICILIA
Correndo intanto quei tempi calamitosi in cui
i Saraceni signoreggiando la Sicilia e tragittando
nella vicina Calabria facilmente
mettevano a sacco le città e i villaggi,
facendone crudelissima strage;
perciò i contadini impauriti
abbandonavano le loro abitazioni.
dalla Vita di s. Vitale da Castronuovo
Già a partire dal VII sec. la Sicilia subì diversi tentativi di conquista da parte degli Arabi. Posta nel cuore del Mediterraneo, l’isola costituiva una piazzaforte strategica di fondamentale importanza per il controllo delle rotte mediterranee e l’impero musulmano si trovava agli inizi di quella straordinaria fase di espansione che ne avrebbe esteso il dominio su tutte le coste settentrionali dell’Africa e su gran parte della penisola iberica.
L’ennesima invasione araba ebbe inizio ufficialmente nell’827 con lo sbarco presso Mazara del Vallo delle truppe berbere guidate dal grande giurisperito di origini persiane, Asad ibn al-Furat. Nell’831 cadde Palermo nuova capitale del dominio arabo sull’isola. Caddero quindi Messina e Ragusa, mentre Castrogiovanni, l’attuale Enna, fu conquistata soltanto nell’859. Ci vollero oltre dieci anni per sottomettere le popolazioni di Val di Mazzara e di Val Demone, ultimo territorio a cadere in mano musulmana. Siracusa fu presa ancora più tardi, nell’878, mentre l’assedio di Taormina iniziò nel 902. Rometta fu l’ultima roccaforte a cedere all’assalto musulmano nel 965.
LA MIGRAZIONE
La conquista della Sicilia e le continue incursioni arabe sulla terraferma innescarono un consistente flusso migratorio che si sviluppò progressivamente lungo tutto l’arco del X sec. fino oltre la prima metà del secolo successivo. In una prima fase furono interessate tutta la Calabria e la Basilicata sud-occidentale. In seguito la presenza di comunità greche si estenderà anche all’interno dei domini longobardi, dove le attività di contadini, artigiani, preti e monaci greci sono ben attestate dalla documentazione d’archivio di molti importanti enti benedettini, soprattutto quelli di Montecassino, Cava dei Tirreni e Montevergine.
Ma quest’ondata migratoria è descritta anche da un’altra fonte, quella dell’agiografia monastica, ovvero il racconto delle vite di alcuni santi monaci in fuga.
Le vicende di questi personaggi, originari per la maggior parte della Sicilia orientale, ci offrono una testimonianza vivida e suggestiva di questo momento storico.
Accanto ad episodi fantasiosi e leggendari, ricorrenti in questo genere letterario, lo scenario che fa da sfondo appare molto ben delineato e puntuale nei suoi riferimenti ad avvenimenti precisi, a figure di imperatori e di funzionari bizantini. Inquadrate in un contesto storico attendibile si svolgono le storie private di interi nuclei familiari che decidono di lasciare la loro terra d’origine a causa di una situazione generale resa insicura, non tanto dalla progressiva occupazione araba della Sicilia, quanto dalle continue lotte intestine che i capi musulmani alimentarono durante le prime fasi di conquista.
Le agiografie tramandano frammenti di una storia comune, di cui i santi monaci sono protagonisti, ma non unici attori. Cristoforo che raggiunge la Calabria con i figli e la moglie; Fantino che invita i genitori e fratelli a raggiungerlo nella “spopolata Lucania”. Luca di Demenna che invita la sorella e nipoti a raggiungerlo nella Valle dell’Agri per fondare un nuovo monastero.
Saba, figlio di Cristoforo, che, dopo aver lasciato a suo fratello Macario la guida dei monasteri da lui fondati alle pendici del Pollino, raggiunge Luca di Demenna che è in fin di vita, e si prende cura della sua sepoltura. Vitale da Castronuovo che decide di raggiungere la Valle dell’Agri per praticare l’ascesi in una grotta non lontano dal monastero fondato ad Armento dallo stesso Luca. Nilo da Rossano che lascia spesso il suo eremo per raggiungere Fantino suo maestro e guida, e lo stesso Fantino che si reca in visita presso la grotta dove Nilo pratica l’ascesi.
Nei racconti di queste Vite straordinarie traspare la vicenda corale della migrazione, il processo di ricostruzione dei legami familiari spezzati dalla fuga, e la sapiente ricucitura di una rete di solidarietà che ancora oggi caratterizza le comunità di emigrati nelle terre d’arrivo.
LA CONQUISTA NORMANNA
La rilevante diffusione di insediamenti benedettini nel Cilento e nel Vallo di Diano è stata sempre interpretata come strettamente legata all’insediamento normanno. È da escludere, però, che la promozione da parte dei nuovi signori dell’espansione dell’Ordine benedettino sia da collegare ad una politica religiosa decisa a rilatinizzare una regione fortemente interessata dalla presenza di fondazioni e comunità greche. È opinione ormai largamente condivisa che la conquista normanna abbia comportato l’annessione delle piccole realtà monastiche diffuse nei loro domini, ai grandi cenobi sia greci che latini, e questo per ovvie opportunità politiche legate al controllo del territorio e all’allargamento della base del consenso tra le popolazioni locali.
Non si spiegherebbe altrimenti il grande favore di cui godettero le grandi abazie bizantine di Sicilia o alcune del Mezzogiorno peninsulare, come il monastero di S. Elia e S. Anastasio di Carbone, diventata grazie all’intervento di re Guglielmo sede archimandritale, San Giovanni di Stilo, Santa Maria del Patir di Rossano e San Nicola di Casole in Puglia, la cui fondazione fu voluta proprio da Boemondo principe di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo.
Anche nel processo di consolidamento del potere, nell’ampia regione posta a Sud del Sele, i signori normanni assunsero un comportamento mirato sostanzialmente ad un controllo capillare del territorio, libero da posizioni ideologiche o da presunti programmi di rilatinizzazione dettati dalla loro alleanza con il Papato. La prova è nel fatto che nonostante la penetrazione dell’Ordine benedettino in questi territori sia stata veramente importante, l’abbazia greca di Santa Maria di Rofrano sopravvisse, insieme ai suoi metochi di Montesano, di Sassano, di Sanza e Buonabitacolo, per essere poi sottomessa da re Ruggero a quella che sarebbe diventata la più importante abbazia greca d’Italia, il monastero fondato da s. Nilo a Grottaferrata.
La presenza benedettina consolidò quel processo di sviluppo demografico e di messa a coltura inaugurato dal monachesimo italo-greco in questa parte del salernitano, certamente ne consolidò gli esiti sulla lunga durata rispondendo, la sua logica, alle stesse misure di sfruttamento razionale delle risorse naturali e di progressiva crescita dell’ambito rurale.
IL DECLINO
“Yo non aio pensero né di Papa, né di cardinale, né di archimandrita”.
Nelle parole di Elia di Pattano la lunga decadenza dell’Ordine di San Basilio.
Tra il primo ottobre del 1456 e il 5 aprile 1457 Athanasios Chalkéopoulos, igumeno del monastero della Theotòkos (Madre di Dio) di Rossano e futuro vescovo di Gerace, venne inviato dal cardinale Bessarione, abate commendatario dell’abbazia greca di Grottaferrata, a verificare lo stato in cui versava il monachesimo meridionale appartenente al cosiddetto “Ordine di San Basilio”. L’itinerario seguito prese inizio da Reggio, risalì tutta la Calabria e la Lucania occidentale, scegliendo come ultima tappa proprio l’abbazia di S. Maria di Pattano.
Il Liber Visitationis compilato durante l’espletamento dell’incarico affidato al Chalkéopoulos, costituisce il verbale di una vera e propria inchiesta finalizzata ad accertare le condizioni dei monasteri bizantini del Mezzogiorno, ma soprattutto la sopravvivenza o meno del culto greco e la conformità della vita condotta dai monaci rispetto ai rigorosi canoni delle origini. Il ricorso a testimoni, anche laici, del posto, fa del testo di questa visita una testimonianza importante per la definizione del rapporto intrattenuto all’epoca tra questi cenobi e le comunità locali.
Il quadro che ne risulta è, nella maggior parte dei casi, desolante.
I monasteri versano in condizioni materiali critiche. La ricchezza delle rendite di un tempo rimane un vago ricordo. Anzi il più delle volte i monaci risultano gravati da un pesante stato di indigenza. Per non parlare della disciplina monastica, disattesa ormai in maniera generalizzata.
Nessuno sembra più osservare i rigorosi principi ascetici del monachesimo orientale. L’incultura e l’ignoranza della lingua greca sono ormai dilaganti.
Ma ciò che appare con impressionante realismo è l’atteggiamento sfacciatamente immorale degli abati, spesso sfociante in comportamenti criminosi. Particolarmente grave appare la situazione dei monasteri cilentani, soltanto tre sugli oltre settanta visitati dalla commissione apostolica.
L’abate di S. Cono di Camerota aveva lasciato il monastero e viveva cum sua femina nella vicina Sanseverino. Nonostante avesse retto l’abbazia da oltre vent’anni, non aveva fatto nulla per preservarne il patrimonio, anzi aveva contribuito in maniera determinante e depauperarlo, cedendone le rendite ad un frate agostiniano in cambio di un censo del tutto inadeguato. Intratteneva relazioni con diverse donne del posto, dalle quali aveva avuto anche numerosi figli. Dopo aver scacciato tutti i monaci dall’abbazia vi aveva convissuto a lungo con la sua concubina. Officiava raramente e aveva distrutto tutti i codici greci del cenobio. Era arrivato persino a ferire con il coltello due uomini e a farsi sorprendere in chiesa con una donna.
Ancora più scandalosa la condotta di Elia, igumeno dell’abbazia di S. Maria a Pattano, dove l’inchiesta si protrasse per sette lunghi giorni, registrando scabrose irregolarità nella gestione del monastero. Un nipote dell’igumeno era a capo di una squadra di oltre venti uomini armati che con periodiche scorribande intimidivano i contadini locali costringendoli a sopportare gli abusi di Elia. Questi, oltre ad aver depauperato il patrimonio dell’abbazia vendendo terre del monastero a prezzi irrisori o cedendone le rendite a suoi parenti, celebrava messa molto raramente, riceveva donne che entravano nel monastero da una breccia praticata nel muro di cinta dell’orto.
Per colpa sua si diceva che fossero state uccise due sue amanti dai rispettivi mariti e che lui stesso avesse avvelenato un confratello per paura di essere denunciato.
Durante l’istruttoria Elia irruppe nell’aula in cui Athanasios e gli altri membri della commissione stavano raccogliendo le testimonianze, minacciando di usare la forza contro i rappresentanti della Curia papale, al punto da costringerli sospendere i lavori e trovare rifugio nel vicino casale di Pattano. Qui avrebbero portato a termine il loro compito dopo aver ottenuto il pentimento di Elia.
Un colpo decisivo alla presenza greca nella Lucania sarebbe stato inferto dai presuli locali dopo la celebrazione del Concilio tridentino. Nel 1572 il vescovo di Policastro, Ferdinando Spinelli, avrebbe imposto a tutti i sacerdoti greci officianti nella sua diocesi di uniformarsi definitivamente al rito latino. Ancora più intollerante sarebbe stato l’atteggiamento assunto da Andrea Bonito, vescovo di Capaccio dal 1677 al 1684, arrivato ad ordinare la distruzione di tutti codici, i libri e le pergamene greche del monastero di San Nicola di Cuccaro Vetere.
Nel 1583, quando il nunzio apostolico, Silvio Galassi, visitò la diocesi di Capaccio, trovò a Rofrano, antica sede dell’illustre dipendenza di Grottaferrata, un solo diacono, figlio di un presbitero greco, l’unico superstite dei tanti che in passato avevano provveduto alla cura animarum delle popolazioni locali.